Storie di Ruvo: quando il vino era prodotto negli scantinati
A volte pericoloso, a volte stancante, ma una cosa è certa: il vino prodotto negli scantinati era una tradizione immancabile nella cultura ruvese e desta sempre più ricordi nostalgici.
Prima dell’avvento della tecnologia così innovativa come la conosciamo oggi, la produzione del vino avveniva con metodi del tutto manuali. Riscopriamone le fasi.
Abbiamo tutti in mente il metodo più tradizionale per estrarre dagli acini il mosto; bene: schiacciare l’uva a piedi nudi era la prima fase di produzione negli scantinati ruvesi.
Dopodiché, la vinaccia ottenuta veniva lasciata fermentare per tre-quattro giorni. Questa era la fase più pericolosa. Il processo della fermentazione, per sua natura, rilascia nell’aria una considerevole quantità di anidride carbonica, molto pericolosa e, a volte letale, se respirata. Attualmente, non risulta essere un problema per via della presenza di aspiratori ma, prima di questi, molti rimanevano vittime della loro stessa produzione. Qual era la soluzione? Accedere un fuoco su un braciere in modo tale che questo assorbisse tutta l’anidride carbonica e rendesse l’ambiente meno rischioso.
Dopo i giorni di fermentazione, la vinaccia si riscaldava: quello era il momento di travasarlo in un tino. Per farlo, qualcuno usava la “sesta”, una sorta di mestolo forato, oppure un semplice setaccio che separasse il vino dai residui della vinaccia.
Nel frattempo, le giornate si allungavano e il travaso continuava di giorno in giorno, sino a quando il prodotto diventava chiaro. A questo punto il vino era pronto per essere gustato.
Tra i vari metodi che si utilizzavano c’era quella che oggi è detta “suffarata”, in dialetto era lo “zulfaridd”, una serie di piccoli candelotti di zolfo legati da una miccia che, una volta accesi, venivano riposti nelle botti vuote per disinfettarle.
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