“Questione cinghiali” – Fabio Modesti, direttore del Parco Nazionale dell’Alta Murgia: «Problema serio, ma non è emergenza! Proposte soluzioni»
Avvistati nelle campagne, nelle periferie delle città o mentre attraversano strade trafficate, a volte con esiti fatali per gli uomini e per loro stessi. Accusati di devastazione nei campi, di danneggiamento di impianti agricoli e muretti a secco. Duri i capi di accusa nei confronti dei cinghiali, la cui presenza in Puglia, soprattutto nel Foggiano e nel Nord Barese, desta notevoli preoccupazioni.
Angelo Corsetti, il delegato confederale di Coldiretti Bari, ha invocato, tempo fa, addirittura un incontro con il Prefetto per tutelare la produzione e anche la sicurezza degli imprenditori agricoli. Si parla di situazione «particolarmente grave e ingestibile nelle aree rurali a Corato, Altamura, Spinazzola, Minervino, Andria, Ruvo di Puglia e Santeramo». Aree che insistono nel territorio del Parco Nazionale dell’Alta Murgia.
Abbiamo, quindi, intervistato il dottor Fabio Modesti, direttore del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, sulla “questione cinghiali”.
La presenza di cinghiali rappresenta un quadro così drammatico tanto da parlare di stato di emergenza?
«No, ci troviamo di sicuro dinanzi a un problema serio, da affrontare con idonee procedure, ma non si può parlare di stato di emergenza e le spiego il motivo. L’emergenza, comunemente, è considerata una situazione pubblica pericolosa tale da richiedere, per essere affrontata con efficacia ed efficienza, la deroga alle leggi che possono anche andare a comprimere determinati diritti. Ora, si può parlare di “emergenza cinghiali”? Si sono verificati e si verificano danneggiamenti alle colture, alle cose e incidenti stradali: ma sono in numero tale da poter parlare di “stato di emergenza”? Direi di no. Io parlerei più di “questione cinghiali”, di problema che va risolto sulla base di dati confrontabili, applicando metodi di monitoraggio e analisi rigorosi. E i dati che noi possediamo, frutto, appunto, della nostra azione di monitoraggio, dimostrano che non ci troviamo dinanzi a un’emergenza. Naturalmente parliamo della situazione all’interno del Parco dell’Alta Murgia».
Qual è, quindi, la situazione all’interno del Parco e a Ruvo di Puglia, nello specifico?
«L’agro di Ruvo di Puglia è una delle zone dove la densità, intesa come numero di animali per cento ettari, è aumentata. Attraverso la densità si può elaborare una stima della popolazione di ungulati. Abbiamo verificato che le densità di popolazione hanno un andamento molto altalenante nel tempo, nel senso che ci sono periodi in cui essa è molto bassa e periodi in cui è elevata (presto sul sito dell’Ente Parco Nazionale dell’Alta Murgia saranno pubblicati i dati dei monitoraggi della popolazione di ungulati dal 2011 al 2017, ndr). Siamo giunti a queste conclusioni attraverso un monitoraggio in cui abbiamo applicato e implementato metodologie scientifiche. Abbiamo notato che i cinghiali, che vivono in branco essendo animali sociali, partono dalle aree boscate e si spostano liberamente negli spazi del Parco, ma hanno un raggio di percorrenza molto limitato. Questo lo abbiamo appurato grazie alla strumentazione telemetrica, ai radiocollari per intenderci, posti sugli esemplari, di cui undici, detto per inciso, sono stati uccisi dai bracconieri. Poi abbiamo rilevato che i danni sono frequenti e maggiori naturalmente in presenza di un’elevata densità di popolazione animale e in presenza di coltivazioni di pregio quali mandorleti e leguminose. Ma la causa di questo problema risiede a monte, in scelte di natura politica».
Cioè?
«Le colture danneggiate sono state realizzate con i Programmi di Sviluppo Rurale 2000-2006 e 2007-2013 senza valutare che si andavano a sviluppare colture di pregio, che si andavano a investire finanziamenti pubblici in territori dove il “problema cinghiali” sussisteva già da tempo, dal momento che sono stati immessi, dall’Ambito Territoriale di Caccia di Bari sin dal 2000. Si è investito in quelle zone sapendo della presenza dei cinghiali ma non è stata fatta un’attenta valutazione dell’impatto di quel problema sulle colture. Quindi, l’assenza di un piano di prevenzione ha fatto sì che si verificassero danni con conseguenti richieste di indennizzo. Questo accade quando la politica non agisce come “il buon padre di famiglia”, accade quando non si studia attentamente la caratteristica di un territorio, che ha differenti peculiarità che richiedono corrispondenti metodi valutazione. E le posso assicurare che noi, Ente Parco, siamo gli unici in Puglia a gestire un problema ereditato. Tra l’altro, è stato favorito il ripopolamento di cinghiali per favorire attività venatorie ma non si è considerato che la legislazione che disciplina la caccia al cinghiale, pure in assenza dell’istituzione Ente Parco, avrebbe consentito un prelievo basso».
Come gestisce l’ente Parco la “questione cinghiali”?
«Con il piano di gestione che abbiamo iniziato ad attuare, avevamo previsto un piano di catture articolato in seicento giornate. Ma ne abbiamo utilizzate meno di un terzo, cioè abbiamo catturato, per traslocarli in aziende venatorie autorizzate o in allevamenti autorizzati di animali selvatici, circa duecento capi vivi. Perché abbiamo utilizzato un tempo ridotto? Nel 2012, dissi all’allora presidente dell’Ente Parco Cesare Veronico che, con questo piano di gestione, ci saremmo messi contro gli animalisti e le associazioni venatorie. Ma poi ci siamo trovati dinanzi a problemi un po’ più importanti che in parte avevamo previsto e in parte si sono presentati in itinere: una legislazione comunitaria e nazionale molto rigida in materia sanitaria e veterinaria, di difficile interpretazione, tanto da mettere in difficoltà anche gli uffici regionali. Eppure abbiamo risolto tutto: il Ministero della Salute venne in Puglia per un audit specifico: ebbene, il nostro caso, l’approccio seguito dal Parco Nazionale dell’Alta Murgia, è diventato un “esempio”, a livello nazionale ha consentito di colmare una lacuna nella gestione degli animali selvatici da catturare e traslocare vivi. Nei confronti di alcune Regioni sono attivate procedure di infrazione perché non hanno gestito correttamente il problema. Sulla base del nostro caso, il Ministero della Salute ha stilato delle linee guida destinate a tutto il territorio nazionale. Il Parco dell’Alta Murgia, poi, con una nota indirizzata agli altri parchi e al Ministero dell’Ambiente, ha informato della definizione di queste linee guida e dell’evidenza che la gestione degli ungulati, effettuata da noi, era la migliore possibile. Intanto, si continua con l’applicazione del piano di gestione attraverso l’invito, rivolto agli operatori economici, a una manifestazione di interesse per la procedura di selezione per l’affidamento diretto del servizio di cattura di quattrocento cinghiali vivi. E la cattura dei cinghiali non ha un costo esoso per la comunità. L’appalto per la cattura, fino ad ora, ci è costato 18.000 euro, cifra irrisoria se si considera che l’intero Piano, che parte dal monitoraggio sino alla traslocazione dei capi vivi, costa 180.000 euro».
Una delle soluzioni proposte, oltre alla sterilizzazione, è l’attivazione della “filiera carne”. Cosa pensa a proposito?
«La filiera carne non si può attivare in Puglia non per cattiva volontà da parte nostra ma perché manca un elemento fondamentale, necessario per l’instaurazione della stessa: manca un centro di lavorazione della selvaggina. Lo abbiamo proposto noi, Ente Parco, ma né Regione, né Città Metropolitana, né associazioni venatorie si sono attivate per la sua costituzione. Abbiamo tentato di creare il centro presso il mattatoio di Altamura e di Ruvo di Puglia, strutturalmente compatibili per accogliere questo tipo di attività. Avevamo quasi concluso con il mattatoio di Altamura, ma poi non si è fatto più nulla…Il centro di lavorazione della selvaggina è importante perché gli animali selvatici vanno trattati in maniera differente rispetto a quelli d’allevamento: gli ingressi hanno una particolare struttura, la lavorazione delle carni deve seguire una determinata procedura. Intanto l’Ente ha presentato un progetto, di cui è capofila, inserito nella misura 16 del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 che prevede il coinvolgimento di dieci aziende del Parco nell’ attivazione della filiera. Le aziende possono aiutare nella cattura dei cinghiali; inoltre, di queste aziende, alcune possono diventare, con i requisiti previsti dalla legge, centri di lavorazione della carne da selvaggina. Ma tutto, alla fine, è partito dall’Ente Parco».
A livello regionale, si sta completando il regolamento sull’abbattimento selettivo degli esemplari, da effettuarsi con personale adeguatamente formato e abilitato. E’ una soluzione, secondo lei, efficace?
«Lo facciano pure il regolamento, ma non sarà applicato all’interno del Parco, che è ente autonomo, sotto la vigilanza del Ministero dell’Ambiente».
Si sono verificati incidenti stradali che, a volte, hanno avuto esiti anche fatali tanto per gli uomini che per i cinghiali. Come tutelare l’incolumità e delle persone e degli animali?
«Il Parco costrinse praticamente la ex Provincia di Bari a installare, nelle zone a rischio, la segnaletica verticale di attraversamento animali selvatici e i relativi limiti di velocità. Le dico che se venissero rispettati i limiti, non ci sarebbe alcun impatto o, se ci dovesse essere, non provocherebbe che danni marginali.
Ma ci rendiamo conto che si tratta di misure non sufficienti per cui abbiamo chiesto ad ANAS e alla Città Metropolitana di installare sensori, opportunamente collocati e collegati in modalità wireless, che rilevino la presenza di animali in prossimità della strada e avvertano gli automobilisti del sopraggiungere di un animale selvatico. I costi di installazione e funzionamento sono esigui, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta da questi enti».
Sul fronte dei danni all’agricoltura, cosa vi proponete di fare?
«Abbiamo proposto, in seduta di IV Commissione Consiliare Permanente, al Presidente Donato Pentassuglia e all’Assessore all’Agricoltura Leonardo Di Gioia, di inserire nella revisione del PSR 2014-2020, gli investimenti per la prevenzione da danni da ungulati. Lo avevamo chiesto, unitamente agli investimenti per la prevenzione da danni da predatori, quando costituimmo il partenariato, ma inserirono solo la seconda in una posta che, tra l’altro non è stata ancora attivata. Capisco che fuori Parco sia difficile effettuare questi investimenti, ma nel Parco essi devono e possono essere previsti».
Alla fine, è possibile una convivenza pacifica tra uomo e animali selvatici…
«Certamente. E’ inconcepibile che il territorio del Parco diventi sterilizzato, cioè privato di animali selvatici. Il Parco dell’Alta Murgia ha una ricchezza biologica notevole, con tante specie di uccelli, di fiori, di animali. La presenza del cinghiale ha favorito quella del lupo i cui avvistamenti suscitano sempre emozione durante le escursioni nel Parco. Io credo che sia fondamentale recuperare la memoria del rapporto tra uomo, territorio e animali, in stretto connubio tra loro e dobbiamo ricordare che l’esistenza dell’uno non è deminutio della libertà dell’altro».