Minuccio Visicchio, lo scalpellino tuttofare che ‘combatte’ l’ignoranza con l’esempio
Una graziosa casina nel cuore del centro storico ruvese ricorda le antiche abitazioni rurali dei nostri nonni. Si fa bella per turisti e passanti, esibendo fioriere straripanti di gerani ed ampie vetrate coperte a metà da tende ricamate, sulle quali si riverberano a fatica squarci di cielo e frammenti della sontuosa Cattedrale. Una dimora così piccola ma così preziosa, tanti sono i segreti delle vite che custodisce.
Ed è su una in particolare che oggi vorremmo concentrarci, quella di un gentile signore, dall’età ormai non più verde, assorto silenziosamente nella lavorazione della pietra. Sorridente ci accoglie nella sua bottega, una piccola fucina di creatività in cui, tra libri e cianfrusaglie, si dispongono allineati gli attrezzi del mestiere, vicini ad un cavalletto e qualche tela di fantasia murgiana abbandonata qua e là. A pochi passi, su un enorme tavolo poggiano eleganti marmi mosaicati e una serie di lastre marmoree accantonate sul pavimento.
Basta una manciata di gradini per sgusciare via dall’abitacolo e percorrere un angusto vico ornato di piante, dove il suo estro prende forma. È qui che Minuccio Visicchio si ferma a raccontare la sua grande passione per il disegno maturata fin dalla giovinezza e vivificata attraverso la frequenza di un corso di ceramica, presso la scuola di Arti e Mestieri, durante il quale si cimenta nella riproduzione di vasi greci grazie agli insegnamenti del suo maestro.
Ha solo diciassette anni quando, espletato il tirocinio in un’industria di marmi, parte per il Venezuela in cerca di fortuna, trovando successivamente un’occupazione dignitosa nel marmificio di alcuni suoi parenti. Vive nel cantiere e, quando sul far della sera termina la dura routine lavorativa, si dedica a modellare lastrine di marmo di poco valore.
Fa la spola tra l’Italia e la fascinosa nazione dell’America del Sud fino al ’74, allorché decide di tornare in patria accontentandosi di lavori saltuari a Genova, Roma e Trani. Ma è il pensionamento a rafforzare in lui l’interesse mai sopito per l’attività manuale. Il suo talento non è passato inosservato neppure alle scuole, che hanno incluso Minuccio in una serie di progetti extracurriculari. Tra questi, ricorda con piacere la chiamata del liceo scientifico di Ruvo nel lontano 2003, nonché le proficue ore di lezione ai ragazzi dell’Oratorio di San Domenico. Lo rallegra pensare che alcuni allievi stiano seguendo la sua strada, facendo tesoro dei ‘precetti’ da lui forniti. Perché le doti che Dio ci regala non vanno tenute per sé, bensì condivise generosamente con il prossimo. E il prossimo, in questo caso, è chi è rimasto ad ascoltarlo ed incantato ha ammirato la laboriosità delle sue mani all’opera. “Non sono un artista, non ritengo tale da potermi vantare. Sono un semplice artigiano.”– si schermisce- “mi vanto che il buon Dio mi rende utile alla comunità. Ormai siamo innamorati del denaro ed è questo che rovina un po’tutti. Da ragazzino ho frequentato varie botteghe del paese che mi hanno consentito non solo di apprendere il mestiere ma anche di crescere. Ho cercato sempre di adattarmi alle esigenze familiari, negli ultimi tempi, infatti, mi sono improvvisato calzolaio” spiega orgoglioso.
Costa fatica saper rendere immortali anonime lastre di pietra con uno scalpello minuto e un martello grossolano, ma Minuccio è davvero abile a duplicare fedelmente, attraverso calchi originali, i suoi disegni su carta o addirittura scene e soggetti di suo gradimento. Passando in rassegna le sue raffinate creazioni, scopriamo una molteplicità di forme marmoree popolate da una serie di personaggi tratti dal repertorio mitico, veterotestamentario, artistico e qualche esempio floreale di natura morta.
Entusiasta, riflette poi sul potere benefico dell’arte che nobilita l’animo e rinvigorisce lo spirito. Sono queste le motivazioni che lo spingono a rivolgere un accorato appello alle maestranze, affinché vengano incrementate campagne di sensibilizzazione sul patrimonio culturale, dinanzi alle quali i giovani non restino indifferenti, continuando a barricarsi dietro lo schermo luminoso dello smartphone. Dunque, come arginare la mortificante apatia delle future generazioni? Con l’esempio.