L’EDITORIALE DI “LUCE E VITA”: “VESCOVI DELLA PROSSIMITA'”
L’EDITORIALE DI “LUCE E VITA”: “VESCOVI DELLA PROSSIMITA'”
Don Miche’ … ma che cosa devo dire? Sapendo che questa frase proviene da don Tonino, non ci si può credere!
Lui, che ha reso il suo modus loquendi un segno distintivo di tutta la profondità della sua fede e cultura, capace di fondere le altezze dello spirito con le esigenze di una evangelizzazione diretta e scevra da ogni possibile contagio di retorica intellettualistica. Lui, dal linguaggio aulico ma avvincente, sublime e metaforico, affabulatore degli uomini del suo tempo, ma anche di chi oggi, pur non avendolo conosciuto, dai suoi scritti ne è attratto e mosso a saperne di più su di lui per arrivare a Lui.
Eppure, quelle sono parole che l’allora parroco della Concattedrale terlizzese, don Michele Cipriani, si sentiva spesso rivolgere in sagrestia quando don Tonino arrivava prima di molte celebrazioni.
Che si trattasse di una personalità ex grege, questo don Michele lo sapeva ormai da tempo, già molto prima del suo arrivo in diocesi.
Per i ruoli che entrambi rivestivano, si erano spesso incontrati ai convegni riservati all’aggiornamento di chi ricopriva incarichi apicali tra il clero.
Pertanto, aveva già avuto modo di scambiare con lui opinioni, di ascoltarlo nei suoi interventi che incantavano l’assemblea e richiamavano a quella essenzialità evangelica, a quella aderenza sine glossa alla Parola, alla Povertà di Cristo che ha contraddistinto l’intera sua esistenza, sia prima che dopo la missione episcopale.
Per questo, al suo arrivo in Diocesi, don Tonino era già per don Michele padre, fratello e guida, dallo stile inconfondibile umile, semplice e fraterno come dimostrò sin dalla cerimonia d’insediamento, quel 5 dicembre 1982, celebrata nella chiesa di S. Maria di Sovereto, dal momento che la Cattedrale era in restauro.
In quel breve tratto di strada a piedi, dalla chiesa di S. Lucia, dove tutti i celebranti si prepararono, fino alla destinazione, don Tonino iniziò ad elargire sorrisi aperti, sguardi profondi ai passanti e ai fedeli curiosi di conoscere il nuovo prelato. Gli occhi e gli atteggiamenti erano già rivelatori di un animo innamorato dell’uomo, desideroso di cogliere il senso dell’altro, di valorizzarne il divino che ben presto tutti avrebbero poi cominciato ad apprezzare. Di lì a poco, nella sua prima omelia alla cittadinanza terlizzese, svoltasi con la massima sobrietà, pronunciò la magna charta della sua missione episcopale: Io voglio essere il Vescovo della strada non del palazzo. E mantenne fede a questa promessa.
Don Michele, come tutti del resto, cominciò a sorprenderlo spesso e a qualsiasi ora, per la strada, fuori dalle chiese, pronto ad ascoltare i drammi, i bisogni e le storie di tutti, come un vero compagno di viaggio, non un principe di palazzo.
In quel discorso, si espresse in un linguaggio moderno a cui non tutti erano preparati: quello del Vangelo vero. Così moderno ed ecumenico, da arrivare a citare degli autori laici, fino a quel momento esclusi dai sermoni omiletici, da suscitare uno “scandalo” per alcuni. Ma stava già anticipando gli scandali del suo magistero. Stava preannunciando gli slanci di papa Francesco verso quei sentieri diversi da percorrere per una Chiesa che vuole essere in sintonia con un mondo che cambia; che è aperta ai laici, che è formata da “pastori che profumano di popolo”, vicina agli ultimi, povera. Proprio ciò che attuò don Tonino. Il suo intento fu quello di riportare in primis sacerdoti e fedeli al messaggio evangelico nella sua integralità.
Don Tonino conosceva bene la realtà del suo tempo perché ne sondava le pieghe giorno per giorno; per questo non si è mai rifiutato di denunciarne le ipocrisie, le mediocrità, le tirannie nei confronti dei deboli, degli indifesi, dei poveri, anche se questo “costava moltissimo” (S. Teresa di Calcutta).
Da profeta qual era, aveva intuito la deriva pericolosa verso cui quella generazione stava naufragando. I suoi occhi già coglievano i segnali di un allontanamento dalla fede, di un impoverimento interiore, di una crisi morale che avrebbe compromesso pastori e laici.
Un giorno, di fronte a un turbamento del parroco e alla sua intenzione di lasciare l’incarico, don Tonino non mancò di rivelare tutta la sua sensibilità di uomo e di vescovo tout court. «Prese a passeggiare in sagrestia, in silenzio, avanti e indietro, pensieroso. Poi replicò: “don Michele sai, anch’io ho avuto la stessa idea! E anche il Cardinale Martini ha obiettato.” Che stiamo a fare qui? Meglio andare in missione perché noi parliamo a gente che è gonfia di cristianesimo ma è vuota di cristianesimo! Noi parliamo a gente che non ha sete di Dio! Ma dobbiamo andare avanti e non scoraggiarci».
Questo lo sguardo lungo di don Tonino, capace di intercettare le sabbie mobili del suo presente e i rischi del futuro, ma sicuro di saper trovare la corda giusta per non esserne impantanati e riprendere il cammino: con Maria e la Santa Eucarestia.
Le novità nell’episcopato di don Tonino
«Novità». Nonostante i ricordi un po’ sbiaditi, questa parola rimbomba nelle parole di Mons. Giuseppe Milillo per raccontare i suoi primi momenti e le sue prime impressioni su don Tonino Bello, vissuti nell’ormai lontano 1982.
Novità nel vedere un Vescovo vicino, non più distante, come in quel tempo storico ci si sarebbe aspettato. Novità nel conoscere un Vescovo “svestito” della sua autorità che confida al nuovo popolo di avere nella sua valigia «la tenerezza, la sofferenza, la fede, l’amore, la speranza indistruttibile della piccola stupenda Chiesa d’origine di Alessano, di Ugento e di Tricase».
Un vescovo che, insomma, si mostra sin dal primo giorno un uomo nella sua fragilità e nella sua sete di compagni di viaggio che lo possano aiutare a liberarsi «da tutto ciò che può ingombrare la [sua] povertà».
Quello che la Comunità di Giovinazzo conosceva a fine novembre 1982 – pochi giorni dopo l’ingresso nella Cattedrale di Molfetta – era un sacerdote come gli altri che si mostrava sin da subito fraterno, accogliente, disponibile al colloquio e all’ascolto. Un sacerdote – ribadito con fermezza da don Giuseppe – che amava stare in mezzo al suo popolo, non sulla cattedra.
Le parole che don Tonino rivolse ai presenti furono programmatiche rispetto alle cinque attenzioni che avrebbe avuto come pastore: la condivisione con i poveri e la preferenza da riservare agli ultimi, l’attenzione ai problemi umani e sociali dei lavoratori, la premura di far entrare nella catechesi i temi della pace e della giustizia, il bisogno di allargare gli altri della Chiesa, l’esigenza di aprire il dialogo con la cultura contemporanea. E abbiamo provato a leggerle insieme al sacerdote giovinazzese.
Gli ultimi, anzitutto, che sollecitavano (e sollecitano tutt’ora) la Chiesa a farsi più vicina, a ripensarsi con proposte più concrete e pragmatiche. Don Tonino iniziò a pungolare le comunità parrocchiali, sin da subito e continuamente, a mettere in moto prassi pastorali su misura dei poveri e degli anziani. I ricordi riportano alla luce le feste organizzate in Auditorium che hanno condotto la comunità della parrocchia Maria SS. Immacolata alla matura consapevolezza che i veri poveri non hanno mai vissuto per orgoglio questi appuntamenti ed era lo stesso don Tonino, che conosceva il nome e la storia di ciascuno, a mobilitare le tende della Chiesa per bussare alla porta della loro vita.
Poi i lavoratori. Con gli occhi ancora pieni di gioia, don Giuseppe fa memoria delle mobilitazioni, insieme al fratello sindaco Francesco, a fianco agli operai delle Acciaierie per salvare i loro posti di lavoro.
Pace, libertà e giustizia. Per esprimere quanto fosse credibile la sua fede in questi ideali, talvolta difficilmente praticabili nella società contemporanea, il racconto si sofferma su un episodio particolare. Don Tonino era solito – sin dai primi giorni di episcopato tra noi – visitare una famiglia che abitava nello stesso palazzo in cui risiedeva don Giuseppe, che aveva vissuto la perdita di un caro, in seguito a una sparatoria avvenuta l’anno precedente. Guidando la sua auto, veniva la sera a confortare la moglie e la figlia, approfittando della scarsa conoscenza della gente per poter camminare indisturbato in città. Per sdebitarsi dei continui gesti di cura, la famiglia decise di donare il contributo ricevuto dopo aver vinto la causa riguardante il triste avvenimento. Quella somma fu una delle offerte che permise la costruzione della Comunità C.A.S.A. Questo, come tanti suoi altri gesti quotidiani, permise sin dai primi giorni di acquisire la consapevolezza che quando parlava di pace, libertà e giustizia, don Tonino faceva sul serio.
E tutto questo perché credeva davvero che il Vangelo potesse prendere forma, a partire dalle feritoie che incontrava.
Allargare gli atri. Qui – scherzosamente – potremmo chiedere a papa Francesco i diritti d’autore, vista l’assonanza di significati che ci permettono di intravedere l’uno calpestare le orme tracciate dall’altro.
Questa missione don Tonino la affidò alla comunità di cui don Giuseppe era parroco, nella fase di costruzione del nuovo edificio di culto. Infatti, in uno dei primi momenti in cui ebbe la possibilità di incontrare i fedeli della zona 167, paragonò quel lembo di terra a un fazzoletto piegato che avrebbe avuto come audace compito quello di dispiegarsi fino a raggiungere, con la sua piena stiratura, tutti gli angoli del territorio. La comunità, sin dalle sue origini, ha dovuto fare i conti con una promessa, uscire, raggiungendo le periferie fisiche ed esistenziali.
Tutto questo era frutto di quella cultura contemporanea che la Chiesa non può scegliere, ma deve soltanto abitare. E può farlo – ricorda don Giuseppe facendo riecheggiare le parole di incoraggiamento che lo stesso don Tonino gli rivolgeva – solo se mette al centro i giovani, ascoltandoli, provando a custodirne le ferite e a interpretarne le visioni.