Ruvesi

La vera ricchezza dell’uomo è la dignità: la vecchia falegnameria di Pasquale Gattulli

Dopo il periodo della Grande Depressione che segnò il crollo dell’economia mondiale alla fine degli anni venti del Novecento, l’imprenditoria artigianale diventava strumento di ‘redenzione’ da un lungo passato di miseria. L’aspirante artigiano, come cavaliere medievale, ricevuta l’investitura da un semplice grembiule e armato di pochi attrezzi del mestiere, passava la soglia di un ambiente povero ma carico di promesse.

Bimbo di appena tre anni, un commosso Pino Gattulli rivede suo padre Pasquale, chino sul tornio a pedale, mentre con movimento ritmico del piede contro un assetto a pavimento controbilanciato in alto da fasce fluttuanti, lasciava scorrere lo scalpello. È ancora lì, aggraziato di trucioli che schizzano come fuochi d’artificio; stilla sudore, mentre di  tanto in tanto, guardando suo figlio di sottecchi, ancora gli ruba il cuore.

Pasquale Gattulli era un falegname mite, arrendevole e di poche parole, tutte qualità che ha poi ereditato suo nipote omonimo. La sua ‘dialettica’ ruotava intorno al concetto di valori: “la vera ricchezza dell’uomo è la dignità. È un vestito, l’unico che possa coprire i propri errori”, ripeteva al suo bambino che, da adulto, ricorda ancora la sua carezza. La sente scivolare dentro come un dono di un grande uomo che chinava mestamente il capo dinanzi alla lode.

Caricati attrezzi, minuterie e legname su un carretto (il pietrone quadrangolare alla successiva mandata), la falegnameria, secondo contingenze varie, veniva trasferita altrove. Aveva trovato sede dapprima in  Corso Gramsci, presso un sottano le cui mura, in pietra viva, sembravano sprofondare in epoche remote, poi in via Madonna, in una stanzetta dove le pareti sembravano collidere tra loro e infine in via Corato, in un ambiente che sapeva di modernità. Quest’ultimo, presagio della fine di un mondo.

L’opera delle sue mani? Tutto ciò che potesse indurre intimità e riposo: tavoli, tripodi, sedie, poltroncine, sostegni per braciere. Sedili a ricamo di canna. E poi… vernici, il colpo vincente con cui Pasquale riusciva del legno a rivelare l’anima.

Singolari gli attrezzi di bottega. Ciascuno con proprio nome, ma contrassegnati da un cartello: ‘Attenzione’. Già, solo la mano esperta sapeva cavarne la funzione.

Avviare la pialla e, un attimo dopo, sotto le dita avvertire il tenero del legno. Scoprire reticoli e venature che riemergevano dal passato a raccontare altre stagioni; trapano a corda che, sprofondando nella materia dura, attorcigliava le funi oltre che sull’asta centrale anche sulle membra vive del falegname, che vibravano della stessa frequenza.

In fila sugli scaffali, fratelli e sorelle, menavano vanto gli altri attrezzi del mestiere: raspa piatta e circolare, tenaglie piccole e grandi, morsetti, cacciavite, martello, scalpello, sega da carpentiere, sega di precisione, colla di pesce, pitture, vernici, chiodi di tutte le dimensioni, tutti concordi nel progettare, intagliare e scolpire la bellezza.

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