I 96 ANNI DI MIMMO SANTORO: ECCO LA SUA INTERVISTA
“E ricoprir di terra una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa”, la citazione di Lucio Battisti calza a pannello per raccontare i novant’anni di Mimmo Santoro, dal Bar Milan al Milan Club, passando per l’Anspi, con l’unico obiettivo: quello di formare uomini, ancor prima che calciatori.
L’intensità dei suoi novant’anni meritano di essere tramandati: ricchi di saggezza, di storie vissute, di aneddoti, ma soprattutto densi di umiltà. Il suo sorriso, la sua serenità lo rendono tutt’ora un “ragazzino” pieno d’inventiva e innamorato della vita.
La nostra chiacchierata comincia dagli esordi. Figlio di Marco Santoro è il quarto di sette figli. Padre di Santina, nonno di due gemelli e bisnonno di quattro pronipoti. La donna della sua vita lo ha lasciato cinque anni fa e non c’è attimo che non la ricordi e che non spenda un secondo per farle visita.
A 18 anni con la valigia in mano parte per Milano per cercare occupazione. Sono gli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Per ottenere il permesso di restare in Lombardia, Mimmo comincia a lavorare come vetraio e cerca in tutte le maniere di riuscire nel suo intento. Ottenuto il permesso torna a fare il “barman”, professione già svolta a Ruvo di Puglia sin da piccolo. Gira per i bar di Piazza Venezia, Piazza San Babila e acquisisce tanta esperienza. Torna nella sua città nel 1965: “Era un Sabato Santo – racconta emozionato Mimmo Santoro- e per le strade cittadine “la Pietà” era portata in processione. All’epoca usciva di notte e rese il più rientro ancor più suggestivo. Grazie ai miei parenti ottenni un mutuo in banca e riuscì a comprare un bar tutto mio. Locale e licenza e da lì ricominciò la mia storia con i ruvesi”.
Nacque il “Bar Milan“, punto di riferimento per intere generazioni al civico 27 di Corso G. Jatta, e per tutti diventò “Mimin du Bar Milan“. Attualmente, in quel locale la tradizione di famiglia viene portata avanti con passione e sacrificio dal nipote
Domenico che ha avuto l’idea di dare una sua nuova impronta a quel locale, dando vita al “Caffè ’79“.
“Quel luogo – commenta Mimmo – mi ha dato tanta fortuna. I ruvesi sono sempre stati amanti dei forestieri e non mi vedevano come uno di loro, ma bensì come un milanese. Ho avuto l’abilità di introdurre diverse accortezze che piacevano tanto ai clienti. La zuccheriera, il bicchiere dell’acqua coperto, il tovagliolo sotto la tazzina del caffé: accorgimenti che erano una novità per l’epoca. La gente era diversa: ci si voleva tutti bene, non c’era cattiveria. Nutrivano fiducia in me e io in loro”.
Non è un caso che il bar si sia chiamato “Milan”: “Dopo mia moglie, il Milan ha rappresentato l’amore più grande della mia vita. Una fede nata a Milano durante il mio periodo milanese e che continuo a nutrire. Il Milan si ama sempre, nei momenti felici e in quelli tristi. Tutti, però, devono ricordare che San Siro è come “La Scala”, non può attendere“.
Da Milano portò con sè tante novità per la Ruvo dell’epoca. Apre il “Milan Club”, un’associazione di basket che annovera diversi talenti: “Poi un giorno Vincenzo Catalano, esponente della DC, mi chiese se potessimo fare cambio di disciplina sportiva. Io entrai nel calcio e cominciai la mia storia nel settore giovanile“.
Il suo amore per il calcio lo spinge a lavorare per i giovanissimi: “Avevo l’obiettivo di creare uomini, poi mi dedicavo all’essere calciatori. Eravamo una grande famiglia e ci tenevo al nostro stile. Era complicato gestire il bar e dedicarsi al calcio, ma ci riuscivo con grande soddisfazione. Di rientro dalle gare giocate era un obbligo per me offrire qualcosa ai ragazzi. Una volta diedi il gelato a tutti quanti. Mia moglie era convinta che avessimo vinto e, invece, gli spiegai che avevamo perso, ma bisognava premiare comunque i ragazzi. Erano miei figli“.
Apre il Milan Club alla cui inaugurazione arrivano Rivera, Tassotti e tanti altri: “Un luogo di ritrovo per chi tifava Milan. Partecipammo con il “Milan Club” alla competizione nazionale raggiungendo due finali, una disputata a Saronno per il 1/2 posto e l’altra a Milanello per il 3/4 posto. In entrambe le circostanze trovammo contro di noi avversari della quarta categoria dell’epoca, difficili da fronteggiare per noi che eravamo giovanissimi. Addirittura giocavo con un portiere di 15 anni“.
Lamarca, Graziani, Lafortezza, Lorusso, D’Ingeo, Michele Scaringella, Mazzone, Ficco, Albrizio, Scardigno, Lafortezza e via discorrendo: con orgoglio ricorda tutti i suoi tesserati. Per l’A.S. Ruvo rappresentò una miniera. Erano gli anni in cui la F.I.G.C. decise di imporre a tutte le squadre di annoverare il settore giovanile nel proprio organigramma societario e dopo tanti ostacoli, Mimmo Santoro cominciò a curare questo aspetto. Diventò vice-presidente dell’A.S. Ruvo: “Per ringraziare il direttivo di tale scelta, comprai Cavallaro. Lo pagai con 5 cambiali da 50.000 lire“. Il momento più bello? “Quando vincemmo il campionato Juniores e ogni qualvolta portavamo a casa la Coppa Disciplina. Ci tenevo tanto al comportamento dentro e fuori dal campo. Il risultato veniva dopo“. La stima che nutrono nei suoi confronti è la cosa più bella: “Sono padri, grandi uomini. Li incontro tutt’ora ed è sempre un piacere per tutti. Ci ricordiamo dei tempi andati e sono orgoglioso di aver contribuito alla loro crescita“.
Gli anni passano ma non smette di innovare: “Portai l’ANSPI alla Parrocchia Santa Famiglia. Lì continuai a forgiare uomini e su quel campo esplose Silvio Dell’Olio che ora milita nell’A2 di calcio a 5. Mi sono dedicato alla Caritas e al volontariato. Volevo donare felicità agli altri“.
Ma quant’è cambiato il calcio giocato? “Tantissimo. Ma non parlo solo in termini di gioco, ma di approccio alla pratica sportiva. Prima si giocava per la maglia, adesso, invece, lo si fa per sè stessi“.
Cerca di spegnere sempre i riflettori su di sè, non vuole ad esempio che si ricordi della “Benemerenza a lui donata dalla FIGC”, parla di umiltà e di felicità silente. Poi si commuove quando parla di sua moglie: “E’ stato tutto per me. Un perno per l’intera famiglia e mi ha insegnato tantissimo. Una donna forte, temeraria che mi ha insegnato a vivere e a trasmettere i sani valori. Mi manca tantissimo“. Le sue mattinate cominciano al cimitero, accanto alla sua tomba, per ricordare i tempi belli, quelle distese di cambi in terra battuta dove crescevano le generazioni di domani.
“Tu chiamale se vuoi emozioni…”.
(Intervista rilasciata a ruvesi.it nel 2019)