Gli “Incroci urbani” della scrittrice Luana Lamparelli
«In punta di dita/ Sfiorare la parola/E non saperla dire.
Nella distrazione/ritrovare il nome/e girare la testa dall’altra parte.
Volgere altrove».
Sono i delicati e incisivi tocchi di penna che compongono una miniatura scritta, “Incroci urbani”, la poesia con cui la scrittrice ruvese Luana Lamparelli si è aggiudicata il quinto posto nella classifica generale e il secondo posto, tra quelle segnalate dalla giuria, su 168 componimenti, al concorso di poesia e fotografia indetto da Civico32, Versante Ripido, Scuola della Carta, Humareels-POverarte/fotografia.
La lirica, pubblicata sul numero di novembre di Versanteripido, è stata apprezzata per coerenza al tema (“La paura e la città”), per maturità stilistica, originalità ed espressione artistica. A Bologna, il 10 novembre, si è svolta la serata di premiazione.
«Personalmente sono molto soddisfatta poiché si tratta del primo concorso in assoluto a cui decido di partecipare e perché scrivo poesia con impegno e attenzione, volontà e dedizione solo da febbraio» dichiara.
Poesie, in realtà, compaiono in due romanzi di Luana,“Giardini senza tempo” (2012) e “Piccoli silenzi desiderabili” (2014). Versi che sono nati per conto loro, sono fluiti da lei, liberamente, sulla carta. Perché la poesia nasce così. Semplicemente. E Luana non pone limiti al flusso di sensazioni e sentimenti che si imprimono in sinuose grafie.
Anticonvenzionale, dinamica, passionale, poliedrica, apprezzata da letterati, artisti e intellettuali con cui collabora nella creazione di eventi culturali. Ospite di salotti letterari e di reading teatrali: questa è Luana Lamparelli. Ne sia letta la biografia artistica sul suo blog, CIRCO LAMPARELLI, i cui post sono narrazioni dell’animo umano; sono lo specchio delle fragilità, dei sentimenti di coloro che li leggono. Ed un racconto sono le sue risposte alle mie domande. E in queste risposte, tanti ritroveranno sé stessi.
Di cosa parla “Incroci urbani”?
«La poesia parla di quello che accade ogni giorno, nella frenesia del quotidiano, in spazi pubblici, ma paradossalmente racconta anche di quello che accade nei nostri spazi privati, nelle nostre solitudini.
Un mio caro amico musicista mi rimproverava: “Non si spiega quel che si scrive”, ma io faccio sempre di testa mia. Così provo almeno a “dilatarla” un po’.
Essa ha diverse chiavi di lettura, racchiude diversi significati.
I verbi utilizzati rimandano ad azioni concrete, però qui si vestono soprattutto della fugacità del tempo, della nostra incapacità di agire davvero, del nostro essere impreparati perché disarmati dalla vita che accade sotto i nostri occhi, senza preavviso, e questo è vero in particolare nelle grandi città. Sono i momenti in cui siamo confusi e sconosciuti tra la gente, nei tram o nel metrò, nei supermercati, sulle scale del palazzo in cui abitiamo o in ascensore. In quei momenti potremmo essere gentili, prodigare cordialità con parole semplici di saluto, ma non lo facciamo; nemmeno quando lo sguardo che distrattamente incrociamo ci è in qualche modo familiare: un inquilino del nostro stabile, un altro pendolare che viaggia sempre nei nostri stessi orari usando gli stessi mezzi pubblici. Vorremmo una dimensione più umana, vorremmo uscire dall’involucro di estraneità a cui la città ci costringe, ma non riusciamo. Il coraggio, in quelle circostanze, letteralmente ci manca. È un coraggio che pecca di prontezza.
Ad un livello più profondo, con un significato più “nascosto”, ho voluto interpretare la città come il nostro mondo interiore: il cuore della città, la sua periferia, i suoi raccordi si riflettono nel nostro Io, nel Super-Io, nell’Es. Ecco allora che le parole con cui la mia poesia si apre, “In punta di dita”, rimandano anche alla delicatezza con cui spesso si rinuncia a qualcosa, una parola o un gesto, di cui invece si possiede il coraggio e al tempo stesso la consapevolezza che pronunciare quelle parole o compiere quei gesti significherebbe farli cadere nel vuoto, partorirli mute o impotenti. Oppure tornare indietro nel passato, un passato che è giusto invece lasciare lì dov’è, a volte in sospeso.
In netta contrapposizione alla delicatezza della prima strofa è la durezza della seconda, che invece vuol portare lo sguardo del lettore su tutto quello che volutamente e consapevolmente si decide di ignorare: può essere la mano tesa dell’uomo di colore in contrapposizione alle nostre, cariche di buste e prodotti alimentari, o quella degli zingari che sostano suonando nelle stazioni, mani che ci infastidiscono, sguardi e richieste che fingiamo di non incrociare o non ascoltare, dando diversa direzione allo sguardo. In quei momenti ci ritroviamo faccia a faccia con emozioni e stati d’animo, con “nomi” quali empatia, sofferenza, comprensione, compassione, ma decidiamo di non guardarli negli occhi. Lì in realtà scopriamo o abbiamo l’ennesima prova inconfutabile di come il significato di umanità sia difficile da declinare nella quotidianità, spesso letteralmente non si può perché davvero non possiamo aiutare tutti, e un sorriso o un buongiorno non bastano, e tutto questo fa davvero paura, almeno a me. Anche con noi stessi, con i nostri sentimenti, coi nostri errori spesso siamo così: inclementi, incapaci di accettarli, di viverli serenamente, o impossibilitati nel dar loro voce, perché tutto ciò costa molta fatica. Sempre più spesso mi rendo conto di persone che, invece di fare i conti col proprio Io, investono l’attenzione sulle vite degli altri, attività che non colmerà mai il vuoto né placherà i rancori che, quando soli tra le pareti domestiche, torneranno a divorarli, e per non sentirli si impegneranno di più in tutto quello che produce “chiasso”, distrazione, alimentando di contro le proprie paure. Così come la città è un brulicare di rumori su cui non si posa mai il silenzio, allo stesso modo queste persone rifuggono il silenzio perché li pone di fronte a sé stessi, con i propri errori, il proprio giudice interiore, le proprie paure. La paura e l’Io, la paura e la città, appunto. Non è un monito, piuttosto una descrizione del reale. Il verso finale è volutamente isolato: è un rimando sia a tutto quello che abbiamo incrociato ma che non possiamo inseguire, in senso letterale e metaforico, sia a quanto la paura ci invita, ovvero ad affrontarla, a riconoscerla, a chiamarla per nome e a non temerla. La paura è potenzialmente cambiamento, se glielo permettiamo.“La Vita non è nelle nostre stanze” recita un film. Ecco, dobbiamo uscire per vivere, soprattutto dalle stanze delle nostre paure».
Quali risposte hai trovato nella poesia?
«Personalmente penso che la poesia nasca da un approdo a consapevolezze nuove o riscoperte e che quindi sia epifania, rivelazione a sé (come autore e come lettore); non reputo che abbia la prerogativa di fornire risposte: semmai, suo compito è aiutarci a porre nuove domande a noi stessi, per regalarci nuovi occhi con cui osservare quanto ci circonda, quello che viviamo o quanto rifiutiamo di conoscere. In questa per esempio, Incroci urbani, ho racchiuso riflessioni e quesiti su come viviamo, su come o quanto siamo presenti o assenti a noi stessi, su come la frenesia della città ci allontani dalla cordialità sincera, spontanea e avulsa da ipocrisie opportunistiche, capace ancora oggi di essere il contraltare del buonismo, del perbenismo. Ma sono tutti punti di partenza, incipit di altre domande e riflessioni.
Posso certamente dichiarare che, piuttosto che risposte, in questa poesia ho ritrovato molto della mia vita a Milano, tra le corse contro il tempo e l’anonimato che tanto ho amato, tra l’incrociare sguardi per giorni di fila senza mai dirsi un buongiorno o un buonasera, e la forzatura di frequentare feste mondane dopo il lavoro, quando non m’importava molto di presenziare alle serate di grandi nomi, quando volevo solo correre a casa ignorando tutti e tutto, ma ero obbligata a esserci. C’è anche un’immagine a me molto cara, racchiusa nei primi due versi: “In punta di dita/sfiorare la parola”. Essi parlano anche delle mani che sfiorano il Braille per leggere, rimandano alla mia esperienza di educatrice per non vedenti; molti ricordi sono lì custoditi. Ma questo è un livello di lettura tutto personale».
Come si è trasformata Luana Lamparelli da “Giardini senza tempo” sino alle ultime produzioni, passando per “Piccoli silenzi desiderabili”?
«Citando lo scrittore Guido Conti, posso affermare che Giardini senza tempo è “il sasso che ha infranto il vetro”. Non so se oggi riuscirei ancora a scriverlo. Mi diverte ricordare la sua vicenda bizzarra: come idea nasce da una richiesta precisa. Poco dopo s’impone come progetto editoriale non per mia volontà: a quel tempo era esattamente “l’opera che non vorrei scrivere mai”. Invece l’ho scritta. Come a dimostrare che quello che non vogliamo fare è esattamente ciò che è giusto fare. Quando, due anni più tardi, ho iniziato a lavorare seriamente a Piccoli silenzi desiderabili, mi dicevo “Non ce la farò mai. Ma come ho fatto la volta scorsa?”. E me lo chiedo anche oggi pensando al terzo romanzo. Questo per dire che per me ogni libro è una sfida e lo è perché ogni volta ogni elemento cambia. Ho bisogno di reinventarmi nella scrittura, di mettermi ogni volta alla prova e in discussione, altrimenti non amerei scrivere.
Giardini senza tempo e Piccoli silenzi desiderabili sono molto differenti fra loro, forse gli unici elementi che li accomunano sono la mia firma e il titolo composto da tre parole. A parte gli scherzi,
l’elemento comune è il desiderio di fascinazione del lettore, e lo dichiaro senza arroganza, senza
presunzione, perché la prima lettrice sono io stessa: se la narrazione, rileggendomi, non mi affascina, allora molto ancora c’è da lavorare. Un lavoro tutto centrato sulla musicalità delle parole, sulla geometria del testo. Da sempre per me la scrittura è come la scultura per Michelangelo: egli asseriva che la scultura fosse già nel blocco di marmo e che suo compito fosse liberarla dal materiale in eccesso che la imprigionava. Per me è così: la storia, la poesia, il racconto sono già scritti, a me non resta che scoprirne le parole, ascoltando il silenzio.
Non credo che il mio approccio alla scrittura possa cambiare.
Per tutto il resto, sono indubbiamente già cambiata, dalla ricercatezza dei personaggi alla struttura, alla composizione delle storie, al linguaggio, alla costruzione narrativa».
Dal tuo armadio dei sogni e dei progetti cosa prenderai?
«Ci sono nuovi progetti legati alla poesia in arrivo. Poi, in primavera spero davvero di realizzare il gemellaggio letterario che insieme a un autore napoletano ci proponiamo da tempo.
E ci sono novità che uniscono il mio mestiere di autrice con la mia professione di educatrice, nuove collaborazioni, altri racconti, il terzo romanzo a cui riprenderò a lavorare dal prossimo mese, ma credo di essermi dilungata già troppo per le domande precedenti. Parlo sempre troppo, forse ora è il caso di contenermi, non certo per scaramanzia».
Ma i racconti, cara Luana, non ammettono limitazioni e barriere. Soprattutto quando narrano di noi.