Attualità

Giustizia, sì o no per cosa? L’approfondimento di “Luce e Vita” sui quesiti referendari

Con cinque decreti del Presidente della Repubblica del 6 aprile 2022, pubblicati in Gazzetta Ufficiale 7 aprile 2022, n. 82, è stata fissata al 12 giugno 2022 la data dei cinque referendum abrogativi sulla giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale con sentenze emesse il 16 febbraio 2022 nn. 56, 57, 58, 59 e 60, e depositate l’8 marzo 2022. Il referendum abrogativo, secondo quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione, determina “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”. I quesiti su cui gli italiani saranno chiamati ad esprimersi riguardano le seguenti materie:

  1. ’incandidabilità dei politici condannati,
  2. la custodia cautelare
  3. la separazione delle carriere dei magistrati
  4. la valutazione degli avvocati sui magistrati
  5. l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Vediamo, uno per uno, di cosa si tratta.

Il primo quesito chiede di abrogare il Testo Unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto a ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. In sostanza, il decreto legislativo – che porta la firma dell’ex-ministro della Giustizia Paola Severino – prevede l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per i parlamentari, i rappresentanti di governo, i consiglieri regionali, i sindaci e gli amministratori locali in caso di condanna definitiva. La norma ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare se la condanna avviene dopo la nomina del soggetto in questione. Per coloro che sono in carica in un ente territoriale basta anche una condanna in primo grado non definitiva per l’attuazione della sospensione, che può durare per un periodo non superiore a 18 mesi. In conclusione, se dovesse vincere il “SI” verrebbe abrogato il decreto legislativo in questione e si restituirebbe ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici eliminando l’automatismo attuale.

Il secondo quesito chiede di eliminare la “reiterazione del reato” dai motivi per cui i giudici possono disporre la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari per una persona sottoposta a indagini preliminari, prima della celebrazione del processo. La custodia cautelare, cioè il carcere preventivo rispetto alla condanna definitiva, è una misura coercitiva con la quale un indagato viene privato della propria libertà nonostante non sia stato ancora riconosciuto colpevole di alcun reato. L’abuso del ricorso a tale strumento emergenziale finisce con il trasformarlo in una vera e propria forma anticipatoria della pena, in violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza previsto dall’art. 27, comma 2, della Costituzione. Pertanto, se dovesse vincere il “SI” resterebbe in vigore la carcerazione preventiva per chi commette reati più gravi, ma si abolirebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile “reiterazione del medesimo reato”, motivazione che viene utilizzata più di frequente dai giudici per disporre la custodia cautelare, benché molto spesso senza che questo pericolo sussista veramente.

Il terzo quesito chiede lo “stop” delle cosiddette “porte girevoli”, impedendo al magistrato durante la sua carriera di passare dal ruolo di giudice (che appunto giudica in un procedimento) a quello di pubblico ministero (il quale coordina le indagini e sostiene la parte accusatoria) e viceversa. Attualmente, nel corso della carriera, i magistrati si alternano nelle diverse funzioni e ciò determina uno spirito corporativo tra le due figure giudiziali e compromette il sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico. Dunque, se dovesse vincere il “SI” il magistrato sarà costretto a scegliere, all’inizio della sua carriera, la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.

Il quarto quesito chiede che gli avvocati, che facciano parte di Consigli giudiziari, possano votare in merito alla valutazione dell’operato dei magistrati e della loro professionalità. I Consigli giudiziari sono organismi territoriali composti da magistrati, ma anche da membri “non togati”, cioè avvocati e professori universitari in materie giuridiche, i quali sono esclusi dalle discussioni e dalle votazioni che attengono alle competenze dei magistrati: tale esclusione è, tuttavia, in contrasto con lo spirito della Costituzione (art. 104, comma 4), che ha voluto che nel Consiglio Superiore della Magistratura vi fosse una componente non togata con eguali poteri dei componenti magistrati. Quindi, se dovesse vincere il “SI” verrebbe riconosciuto anche ai membri “laici”, cioè avvocati e professori universitari, di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati.

Il quinto e ultimo quesito chiede che venga abolito l’obbligo di un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), organo presieduto dal Presidente della Repubblica, che è membro di diritto al pari del Presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Procuratore Generale presso la stessa Corte; gli altri 24 componenti sono eletti per due terzi dai magistrati, scelti tra i magistrati, mentre il restante terzo viene eletto dal Parlamento in seduta comune. Sicché, un magistrato che voglia candidarsi a far parte del CSM deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme e, pertanto, nei fatti deve avere il sostegno di una delle correnti, le quali sono diventate i “partiti” dei magistrati e influenzano le decisioni prese dall’organo, favorendo l’assegnazione di incarichi ai suoi componenti e decidendo trasferimenti e nuove destinazioni, secondo una logica spartitoria e consociativa. Pertanto, se dovesse vincere il “SI” verrebbe abrogato l’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto, di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura e si tornerebbe alla legge originale del 1958, che prevedeva per tutti i magistrati in servizio la possibilità di proporsi come membri del CSM presentando semplicemente la propria candidatura, con la conseguenza che verrebbero premiate le qualità personali e professionali del magistrato e non gli interessi delle correnti o il loro orientamento politico.
Si ricorda che, per la validità del referendum abrogativo, è necessario che partecipi al voto la metà più uno degli elettori aventi diritto, e quindi, in caso contrario, resteranno in vigore le norme per le quali il quorum non dovesse essere raggiunto.

avv. Corrado Bonaduce
Luce e Vita n.21/2022

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