Attualità

Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne: flashmob in Piazza Dante e la lunga marcia delle scarpe rosse

«Se ho potuto studiare, se sono quella che sono è grazie a un uomo, che ha voluto che crescessi come tutte le altre bambine: mio padre». Laura Pellicani, presidente dell’Associazione “Apuliae  Terrae”, ha ricordato le parole del Premio Nobel per la Pace, la giovane pakistana Malala Yousafzai nel flashmob organizzato dalla stessa associazione con il supporto di tutte le altre appartenenti a “Rete Attiva”,  il 25 novembre, nella “Giornata Internazionale Contro La Violenza Sulle Donne”.

Parole significative pronunciate in un contesto dove si condanna la violenza contro le donne perpetrata proprio da uomini. Ma gli uomini possono anzi devono partecipare attivamente a questa lotta  perché  un freno alla violenza non deve  passare attraverso una contrapposizione di genere. E’ importante sottolineare questo.

E, nonostante l’aria pungente, donne, ragazzi e uomini si sono raccolti in Piazza Dante intorno ad alcune paia di scarpe rosse, tenendo in mano palloncini dello stesso colore che, alla fine dell’evento, sono stati liberati come saluto e carezza affettuosa alle piccole yemenite che si suicidano pur di sottrarsi alla vendita e al matrimonio forzato con uomini maturi; alle figlie dei clan mafiosi, costrette a sposare i rampolli di altri clan per cementare alleanze; alle bimbe vittime di infibulazione, alle 6 milioni 788 mila donne italiane tra i 16 e 70 anni  (dati Istat giugno 2015) vittime di violenza, e a tutte le vittime di ogni tipo di violenza.

Ma che significato hanno le scarpe rosse al centro?

Il progetto delle «Scarpe Rosse» o «Zapatos Rojos» fu ideato nel 2009 dall’artista messicana Elina Chauvet che dispose artisticamente, per le vie di Ciudad Juárez,  33 paia di scarpe rosse femminili per ricordare il triste fenomeno della sparizione e uccisione delle donne in Messico. Da allora, il 25 novembre di ogni anno le piazze, le strade di quasi tutto il mondo, si tingono del rosso delle scarpe, degli abiti, dei fiori tra i capelli delle donne che gridano «Basta alla violenza!».

Anche la data, il 25 novembre, ha un significato importante. Istituita dall’Onu con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999,  fu stabilito che la GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE dovesse ricorrere nel giorno in cui furono ritrovate morte, in un dirupo, le tre sorelle Mirabal, considerate rivoluzionarie dalla polizia del dittatore dominicano Trujillo e per questo torturate e uccise. Furono uccise perché facevano paura, perché  dimostravano al mondo maschilista che anche le donne hanno idee, combattono per sostenerle affinché i figli possano vivere in un mondo migliore. Ma l’orrore fu mascherato da incidente.

Come indossano la maschera degli  «infortuni domestici»  i maltrattamenti, fisici e morali, subiti dalle donne tra le mura di casa a opera del proprio compagno.  E purtroppo sono le stesse vittime a nascondere queste dure realtà, vuoi per vergogna, vuoi per un sentimento d’amore che le lega al loro carnefice, vuoi per proteggere i figli che «hanno bisogno di una famiglia unita».

Spesso si trincerano dietro il mutismo, dietro una cortina di ostilità nei confronti di chi vuole aiutarle come se costui violasse il loro spazio sacro che è tale sicuramente  ma che è anche profanato da cieca violenza devastatrice.

Questa forma di sudditanza è frutto di un retaggio culturale che va combattuto con l’informazione a tutti i livelli e soprattutto la formazione nelle scuole sin dalla tenera età.  E sull’educazione bisogna puntare molto perché per i futuri mariti, compagni, uomini deve essere naturale e spontaneo ritenere la donna una persona autonoma, dotata di valori e pensieri, su cui non si esercita alcuna forma di potestà o autorità.

Basti considerare che, ad agosto 2014, è entrata in vigore la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica,  atto che se pur vincolante, è disatteso nella sostanza nelle aule di giustizia italiane.

Una volta  lessi un aneddoto dell’avvocato Giulia Bongiorno, in prima linea nella  difesa delle donne: essa  aveva sentito il giudice suggerire a una donna, vittima di violenza da parte del marito «Ma perché non lo perdona? Cosa vuole che sia uno schiaffo? In fondo è suo marito. Pensi alla famiglia.»

Spesso le Forze dell’ordine, a cui la donna maltrattata,  si rivolge non trasmettono immediatamente la notizia di reato alle Procure per cui le donne diventano vulnerabili, esposte alla violenza e alle ritorsioni del partner abbandonato. Cosa più grave è la non tempestiva adozione di misure cautelari (diffida ad avvicinarsi, arresti domiciliari) nei confronti di soggetti pericolosi .

Le leggi a tutela delle donne esistono ( e ad esse si aggiunge il Decreto Legge 93 del 2013 sulla violenza di genere, convertito nella Legge 119 del 15 ottobre 2013) ma bisogna applicarle e farle rispettare correttamente.

Un ruolo importantissimo nella protezione delle donne è svolto dai Centri Antiviolenza.

In Puglia ne esistono 19 tra cui lo Sportello di Assistenza per le donne vittime di violenza che si è inaugurato a Ruvo lo scorso 6 novembre in via Solferino 1/B (vedi articolo http://www.ruvesi.it/domani-inaugurazione-e-presentazione-al-pubblico-dello-sportello-antiviolenza/) e voluto da tutte le associazioni, le imprenditrici, le professioniste anche sulla scia del Flashmob organizzato lo scorso anno.

Questo affinché tali manifestazioni non si trasformino, col passare del tempo, in sterili appuntamenti con derive consumistiche. Si auspica che questi centri non chiudano mai gli sportelli a causa degli esigui finanziamenti pubblici e che ad essi si rivolgano le donne vittime di violenza senza alcuna remora, paura o vergogna.

Perché nel momento in cui saranno consapevoli della propria ricchezza, della propria importanza, avranno fatto un piccolo passo verso la libertà.

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