"Don Gino: l'uomo e il vescovo"
Riceviamo e pubblichiamo l’editoriale di Luigi Sparapano, riguardante la scomparsa del vescovo don Gino Martella.
Abbiamo già celebrato il trigesimo, ma la sua scomparsa non mi sembra ancora vera; soltanto salendo le scale dell’episcopio avverto il vuoto.
Eppure ho impresso nei miei occhi, gonfi di lacrime, lo sguardo ormai spento di don Gino che emergeva dalla fredda bara, quando di buon mattino, il 7 luglio scorso, accorsi in seguito alla triste telefonata ricevuta. E pensare che la sera precedente, mentre lui era nel suo appartamento, forse in preda al malore, io ero dall’altra parte dell’atrio, nella redazione di Luce e Vita, che provavo a telefonargli per ricordargli di un appuntamento l’indomani a Terlizzi. Nessuna risposta al telefono fisso (ultima mia chiamata alle 21,24) e non ho voluto disturbare sul cellulare, la cui non risposta mi avrebbe allertato.
Ma, come ha detto Mons. Aiello nell’omelia per il trigesimo (disponibile su diocesimolfetta.it), “anche se fossimo stati in cento a fargli compagnia, non saremmo riusciti a rendere meno drammatico quel passaggio che attende ciascuno di noi: il passaggio dalla vita alla morte, il passaggio dalla morte alla vita”.
Così è stato, purtroppo.
Tanti sono i commenti e le narrazioni che si vanno facendo sulla persona, sul ruolo, sul ministero. Tanti se ne faranno. E sempre più emerge la persona schiva, quasi timorosa, discreta, ma presente e attenta. Una discrezione che poteva rasentare l’assenza, ma così non era, soprattutto per quanti avevano modo di confrontarsi più costantemente con lui. Forse una delle cose che mi mancheranno di più è proprio quel suo fermarsi in redazione, di ritorno dai suoi impegni serali, e accennare ai fatti del giorno, alle persone, ai commenti e non di rado mi coglieva impreparato. Non gli sfuggiva nulla ed era attento ad esercitare il suo ministero con la dovuta ponderazione, senza voler mai travalicarne i limiti. Questo non vuol dire che siano mancati anche momenti più irruenti, di confronto aperto e diretto anche nei modi, senza però mescolare la persona con l’opinione che esprimeva.
Quel suo modo di essere schivo lo manifestava anche nel tono e nella prossemica. Una volta, in occasione degli auguri pasquali, mi ero permesso di fargli notare che la stessa omelia che aveva scritto e pronunciata nella messa crismale, se letta e proposta con un linguaggio non verbale diverso, avrebbe toccato più in profondità le corde dell’assemblea. Ed egli, accogliendo la mia sollecitazione, ne riconosceva la verità e ammetteva la sua difficoltà a lasciarsi andare quando davanti ai suoi occhi vi era tanta gente, nonostante gli ormai tanti anni di episcopato. Ad una persona che gli esprimeva apprezzamenti per l’omelia tenuta a braccio, in una circostanza parrocchiale, rispose: “Non è facile guardare negli occhi la gente che hai di fronte e non… smarrirti… entrare nei problemi di tanti fratelli…” e i suoi occhi divennero lucidi.
La prova di tanto l’abbiamo avuta proprio in questi giorni, scoprendo la sua vena artistica nota soltanto ai parenti e a qualche diocesano che aveva beneficiato di qualche sua opera. Dipingeva quando era a casa sua, nei momenti liberi, sempre più ridotti, rappresentando paesaggi reali o immaginari in cui, ci piace pensare, lasciava correre la sua fantasia, la creatività viva, espressa con colori caldi, rilassanti, avvolgenti.
Tracce cromatiche di una bellezza interiore, attinta a piene mani dalla Bellezza originaria del Signore Dio al quale ha consacrato la sua vita. Ci ha sorpresi, e ci sorprenderà ancora.