CONCITA DE GREGORIO ED ERICA MOU AL TEDONE PER RACCONTARE E DIRE “UN’ULTIMA COSA”
Dodici donne, dodici voci, dodici storie.
Quelle raccontate a cuore aperto da Concita ed Erica ad una platea gremita e rapita di studenti e docenti del Liceo Tedone. Dodici donne che si sono perse al mondo nella ricerca dell’autenticità, stagliandosi solo dopo il silenzio della morte in tutta la loro grandezza, originalità e bellezza nell’atto di pronunciare la propria orazione funebre.
Parole e voci di donne che sarebbero potute essere vie maestre ma sono rimaste spesso vicoli ciechi, racconta Concita, poiché escluse, messe al bando da qualche uomo che solo per averle sfiorate si è sentito in diritto di santificarle o crocifiggerle ma che, in uno spietato colpo di scena, si staccano a morsi da quel cordone ombelicale maschile e smettono di essere ombre, specchi riflessi, e divengono dirompenti, spiazzanti, rabbiose, antifasciste restituendo umanità e dignità alla storia del Novecento. O meglio alle storie del Novecento, a quelle microstorie monumentali del ‘900 che ci parlano di libertà.
Concita ed Erica, in una tiepida mattina di primavera, l’una dalla prospettiva di donna, madre di quattro figli maschi, scrittrice e giornalista ispirata da modelli femminili come Oriana Fallaci nell’operare in un mondo tradizionalmente controllato da uomini, l’altra, Erica, dalla prospettiva di giovane sposa, cantautrice innamorata della chitarra, delle parole nuove, dell’esplorazione delle lingue che si rigenerano nel canto fra inglese, spagnolo e dialetto, hanno insegnato a giovanissimi liceali il valore della parresia, di memoria socratica, attraverso le raccomandazioni della fotografa e bambinaia Vivian Maier, antesignana della street photography: “un buon metodo per non dare nell’occhio è restare perfettamente se stessi”.
E a Pier che chiede cosa deve fare un ragazzo oggi, Concita non esita nel rispondergli: “Quello che hai appena fatto tu, alzarsi e far sentire la propria voce”. Alzarsi e dire la verità pone dei rischi e per questo richiede coraggio. Non conviene dire la verità: sono in gioco il proprio “utile”, la stabilità consolidata, il consenso raggiunto, la relazione conquistata. Eppure è proprio da questa scelta che deriva la libertà. C’è un’etica nella parola e nella scrittura che va oltre il compiacimento delle apparenze: l’etica del dire la verità, dell’essere trasparenti costi quel che costi. Scelta di vita, qualità civile, virtù luminosa.
Concita ed Erica ci hanno insegnato che nella scelta scomoda e mai gratuita di dire la verità c’è tutto il potenziale di autoguarigione: “essere comprese”, pertanto, non interessa a nessuna di queste donne, essendosi guarite da sole.
Grazie a Concita, Erica, alle loro e a tutte le donne che, per restare limpidamente se stesse, hanno insegnato il coraggio inestimabile di donarsi e di farsi pelle, respiro, canto.