Ruvesi

A TE, MAMMA ELISABETTA

Un simpatico bimbo paffuto, dagli occhi grandi e vispi, si erge curioso sul petto della mamma che delicatamente lo sorregge. Si tengono così, anima e cuore, stretti vicendevolmente in un tenero afflato d’amore, abbandonandosi ad un gesto di quotidiana spontaneità. Il dolce abbraccio che li lega è racchiuso in una fotografia dai colori tenui custodita gelosamente da Nicola, non più il piccolino di un tempo, desideroso di coccole materne, bensì un uomo maturo e responsabile, pronto ad affrontare con tenacia tutte le sfide che l’esistenza prospetta.

Commosso, tiene l’istantanea tra le mani, la riguarda, la accarezza, mentre una lacrima gli solca il viso. Nessuno potrà mai restituirgli la bellezza degli anni trascorsi insieme alla sua mamma, quando l’unica certezza era tornare a casa dopo una frenetica giornata e riferire a lei gioie e dolori della bizzarra vita scolastica. Allora sedeva accanto a lui e si preoccupava scrupolosamente che le lezioni di italiano e matematica filassero lisce come l’olio. Nulla era faticoso se c’era lei, neppure quella carogna del latino, tanto ostico da memorizzare ma impossibile da dimenticare. Quelle spiegazioni provvidenziali instillavano sicurezza in un vivace adolescente che aveva ancora molto da imparare… profumavano di candore, di tenerezza, di protezione.

Lei che insegnava discipline letterarie, sapeva bene cosa significasse essere di aiuto non solo nei confronti dei suoi figli, nostalgici di un papà che lavorava lontano, ma anche di allievi poco zelanti. Si dedicava al suo lavoro con pazienza, una qualità che le permetteva di approcciarsi a classi difficili, riuscendo a tirar fuori da tutti o quasi, oltre alla voglia di studiare, l’inestinguibile desiderio di rivalsa su cattivi esempi familiari. Un iter lavorativo di tutto rispetto, costellato da qualche sporadica supplenza e cattedre provvisorie ad Andria e Spinazzola, in attesa di approdare nella sua Ruvo, il paese che l’ha vista crescere.

Perché Elisabetta Lovino era una donna pura e generosa, sempre propensa a donare conforto a quanti ne avevano bisogno. Aveva la straordinaria caparbietà di educare all’autonomia due esuberanti figli maschi, affinché camminassero nel mondo da soli con grandi e robuste spalle e mani tanto vigorose da sostenere coloro che volessero appoggiarsi.

Ha lasciato un vuoto incolmabile volando in cielo troppo presto. È vero, forse gli angeli passano sulla terra per ammonirci di quanto le gioie siano effimere, esortandoci a godere nei momenti di felicità, perché la tristezza irrompe repentinamente e, fulminea, si impossessa dello spirito. E,  quando la mancanza si fa sentire, i ricordi formano un mosaico variopinto composto da tante piccole preziosissime tessere incastonate l’una nell’altra. C’è un’immagine che però Nicola porterà sempre con sé, quella di una madre orgogliosa che dalla platea manda i baci a suo figlio tenore, lo scruta, lo incoraggia, lo rafforza.

Breve ma intensa, la vita è come uno spettacolo teatrale: si entra, la si guarda, si esce. E non serve quantificare la durata degli anni, bensì credere che chi ci ha lasciato continui ancora a vivere in noi. Non si separano mai le persone che si sono amate con il cuore, neppure la lontananza le spaventa. Certo, la perdita è un duro colpo da sopportare ma il tempo prova a suo modo a lenire gli affanni.

Se mamma fosse qui vorrei dirle di non andare via perché, anche se ci ha detto di badare a tutto, è davvero arduo stare senza di lei”;- commenta Nicola– “mi piacerebbe chiederle come si fa a non sentire la mancanza dei suoi baci e dei suoi abbracci, la pregherei di proteggerci come ha sempre fatto. Probabilmente le dedicherei ogni singola nota che esce dalla mia bocca, perché è stata fondamentale nel mio percorso. Se oggi sono quello che sono, con pregi e difetti, lo devo a lei, alle sue parole, al suo accompagnarmi in lungo e largo per lezioni e concerti, al suo spiegarmi il significato di quello che cantavo”, racconta. Poi prosegue: “per mio fratello Luciano e mio padre Sebastiano è stata una fonte inesauribile di risposte. Mio padre racconta sempre di come sia diventato quello che è grazie a lei. Imperturbabile, mamma si rimboccava le maniche in qualsiasi circostanza e dava sempre l’impressione di non abbattersi mai, osservando speranzosa i nostri percorsi di vita. Per noi era tutto!”.

Come se stesse riavvolgendo il nastro di una vecchia cassetta, Nicola ripercorre gli istanti di quel maledetto 26 aprile del 2011, un giorno grigio che sembrava fondersi con il suo stato d’animo: “Era in cura da tempo. Quando arrivai in ospedale era sveglia e, poco dopo, mi diede delle direttive avvisandomi che sarebbe andata via. Naturalmente, come mio solito, sdrammatizzai ma lei non stava scherzando”.

In quel piovoso martedì post pasquale, Nicola perdeva la sua roccia, il suo faro nella notte buia, la ragione del suo sorriso, la sostanza dei suoi stessi giorni. Nel vento un infinito abbraccio, un bacio e forse niente di più…

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