Cronaca

19 ANNI FA LA MORTE DI MAURIZIO STEFANUCCI

Quel vuoto che non passa, che non si dimentica. Ricorre oggi il diciottesimo  anniversario della scomparsa del vicecomandante Maurizio Stefanucci, scomparso in un incidente stradale il 12 agosto 2003, mentre scortava un arrestato.

Il profilo tracciato è unanime: uomo umile, buono di cuore, che ha lasciato un grande vuoto non solo nella caserma della locale stazione dei Carabinieri, ma nell’intera città.

Oggi l’inaugurazione di Piazzetta Stefanucci darà un senso differente a questo tragico diciottesimo anniversario.

Abbracciando fortemente la famiglia, lo ricordiamo attraverso un articolo di cronaca dell’epoca, nel quale si ricostruisce la dinamica dell’incidente.

“Figlio di un poliziotto. E fratello di un poliziotto. In una famiglia che da generazioni veste la divisa, lui aveva scelto quella nera e rossa dei carabinieri. Una fede, come dice il loro giuramento, un patto che non si è sciolto, neanche quando l’ Alfa 155 d’ordinanza si è schiantata sulla provinciale che collega Ruvo con Corato, schiacciando tra le lamiere lui, il suo equipaggio e un detenuto che stavano portando al carcere di Trani. è morto in servizio il maresciallo capo Maurizio Stefanucci, 38 anni, padre di tre figli, vicecomandante della stazione di Ruvo. Gli altri due carabinieri sono rimasti feriti. è successo l’ altra notte, poco dopo le tre. Il maresciallo Stefanucci e i suoi uomini avevano arrestato un marocchino per un tentativo di rapina, e lo stavano portando al carcere di Trani. Lampeggiante acceso erano appena usciti dalla caserma, quando una Rover 400, forse per un sorpasso azzardato, o un colpo di sonno dell’ autista, Michele Lovero, 27 anni, li ha letteralmente travolti. Impatto frontale. Micidiale. Le due auto si sono accartocciate l’ una dentro l’ altra. Nello schianto il maresciallo Stefanucci, che era caposcorta, è morto sul colpo. Gli altri due carabinieri, gli appuntati Antonio Colasanto, di 38 anni, e Giuseppe Ciprelli, di 39, sono ricoverati negli ospedali di San Paolo e di Terlizzi. Sono gravi, ma non in pericolo di vita. L’ immigrato arrestato ha riportato solo lievi contusioni. Il conducente della Rover, Michele Lovero, 27 anni, invece, è in coma. è ricoverato in prognosi riservata nell’ospedale di Andria. Sull’ incidente la procura di Trani ha aperto un’ inchiesta. Lovero, se uscirà dal coma, rischia l’ accusa di omicidio colposo. «Siamo usciti dalla centrale, e in costante contatto radio abbiamo preso la provinciale…» cantava Giorgio Faletti in un Festival di Sanremo. Ma la storia di Stefanucci non è una canzone, né un telefilm dove i buoni non muoiono mai. Trentotto anni, nato a Vasto, ma da sempre vissuto ad Apollosa, nel Beneventano, era diventato maresciallo con il corso del 1987-89. Era sposato e aveva tra figli, il più grande di 12 anni e il più piccolo di tre anni e mezzo. Da nove anni viveva a lavorava a Ruvo. Abitava in un alloggio di servizio, perché appena poteva tornava a casa dalla famiglia in Campania. «Un carabiniere eccezionale e un uomo di grande umanità – dice il suo comandante, il maresciallo Nucci- eravamo una coppia affiatata e inseparabile». Portava la divisa da 14 anni. E sul lavoro non si era mai risparmiato, dicono i suoi colleghi, anche a rischio di sembrare retorici. «Ogni giorno i carabinieri rischiano la vita in incidenti stradali, risse, arresti e operazioni. è il nostro lavoro – dice il colonnello Aldo Visone, comandante provinciale di Bari – ma quando muore un sottufficiale di così grande stile, professionalità e umanità, non si può rimanere impassibili. Il dolore prende il sopravvento». Ieri a Ruvo, i carabinieri hanno continuato a lavorare come tutti i giorni anche se avevano la morte nel cuore e il volto di Stefanucci negli occhi. C’ era un servizio coordinato contro le rapine nelle tabaccherie e nei supermercati. E loro erano in divisa, per strada come sempre. è stato l’ ultimo addio al loro collega morto con la divisa addosso. «Ma qui diventa sempre più dura quanto ci tocca fare i conti con il coraggio della paura…» cantava Faletti”.

da “Repubblica” del 13 agosto 2003 – Cristina Zagaria

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